(da oo 297 – 9a conferenza pubblica) Olten, 29 Dicembre 1920
In settembre e ottobre dell’anno corrente abbiamo tenuto nel Goetheanum di Dornach un corso di conferenze universitarie, con le quali tentammo di applicare il punto di vista antroposofico alle diverse scienze, come pure ai campi più svariati della vita pratica. In questi corsi universitari non volevamo trattare dell’antroposofia come tale: volevamo che le personalità ivi convenute, scienziati d’ogni genere, artisti, nonché uomini dediti alla vita pratica commerciale e industriale, dimostrassero come il punto di vista antroposofico di studiare la vita e l’universo sia atto a fecondare i campi più diversi della vita scientifica e pratica. Nessuno di voi ignora che oggi lo scienziato, ad onta dei suoi progressi mirabili che per primi noi riconosciamo, specie nel campo delle scienze naturali, nessuno ignora che egli è giunto oggi a toccare certi confini al di là dei quali si ergono dei problemi ai quali non si può assolutamente rispondere coi metodi e i mezzi di percezione che la scienza ufficiale oggi ammette.
Se ne conclude che vi sono dei confini insuperabili alla conoscenza umana, alla facoltà umana di conoscere: dei confini che senz’altro all’uomo non è dato varcare. Ora, la Scienza dello Spirito vuol dimostrare appunto come si possono rendere fruttuosi i sistemi diversi d’indagine, il modo di pensare e di considerare, nati dall’atteggiamento materialistico che ai nostri tempi hanno assunto la scienza e la vita, se si passa oltre ad un altro genere di conoscenza, ad un tutt’altro genere di metodo di investigazione. Qui, fin da principio, tocco quel punto al quale l’Antroposofia per sé stessa deve ancora al presente il maggior numero di oppositori, anzi di nemici. Perché questa inimicizia non deriva tanto da sicuri sostrati logici, o da obiezioni scientifiche ben vagliate, ma sorge da una causa che ultimamente (quasi ogni settimana vedono la luce interi volumi ad oppugnare l’Antroposofia) un docente di teologia ben definì col dire “che l’Antroposofia rende rabbiosi, che essa è odiosa ed irritante. Vi è dunque un certo antagonismo che ha le sue radici non tanto nella logica quanto nel sentimento. E ciò per il fatto che l’Antroposofia non accetta senz’altro il principio della conoscenza quale fu elaborata sin qui dal genere umano, conoscenza che si può caratterizzare così: l’uomo possiede per eredità determinate facoltà di conoscenza.
Queste egli manifesta a poco a poco per il suo sviluppo naturale, poi grazie all’educazione consueta egli si evolve più oltre, fino a diventare un membro utile della società ecc. ecc. In seguito colle facoltà che così si è venuto acquistando, affronta il sapere stesso, la vita scientifica e tenta allora di elaborare metodi diversi, metodi di osservazione, metodi sperimentali, metodi logici, ecc. Ma, amici, se si abbraccia nel suo complesso tutta questa metodica della scientificità d’oggi, bisogna dire che essa parte dal presupposto che l’uomo, in un dato momento, abbia raggiunto normalmente una particolare facoltà di conoscere, e che al di là di quella non si possa andare. Avremo un bell’armarci di microscopio, di telescopio, di apparati Roentgen, non andremo al di là di un dato grado di conoscenza, ossia quello che viene considerato oggi come appartenente alla media. Certo, si può penetrare più addentro nella scienza coll’elaborare, per così dire, in modo più complicato o più minuzioso questo metodo di conoscenza solito, ma generalmente non si tiene conto affatto di ciò che è invece una cosa principale per l’Antroposofia, e cioè una certa “modestia intellettuale” da cui essa prende le mosse.
Ed è appunto questo che la rende così irritante per gli uomini del presente, che di un simile atteggiamento di modestia non vogliono nemmeno sentir parlare. Ma non si può fare a meno di dire le cose come sono! Vedete, se per esempio a un bimbo di cinque anni cade in mano un volume di poesie di Goethe, che cosa ne farà? Probabilmente non saprà farne miglior uso che di stracciarne le pagine. Ma quando questo bimbo avrà dieci anni di più, saprà certo servirsi del libro in tutt’altro modo. Egli penetrerà in quello che sta scritto nelle singole pagine.
Nel bambino qualcosa è venuto crescendo, qualcosa in lui ha maturato, egli ha tratto fuori dalle profondità sue recondite qualcosa che dieci anni prima per lui non c’era. Ha avuto luogo nel bambino un processo vero e proprio, non già il semplice processo logico. Il bambino è diventato in certo modo un essere diverso da quello che era prima. Ho parlato della “modestia spirituale”che deve essere posseduta da chi vuol diventare studioso dello Spirito nel senso antroposofico. Questo studioso deve essere capace di dire a sé stesso in un dato momento della vita: come il bambino fra i cinque e i quindici anni sottostà ad un processo vero e reale, come veramente date facoltà dell’anima che prima non si manifestavano in lui, appaiono di lì a dieci anni, così è possibile a ciascuno di noi di continuare ad evolvere ciò che costituisce nella vita usuale la facoltà conoscitiva, ed in genere tutte le forze dell’anima.
Si può togliersi da quel punto di vista scientifico se si vuol chiamare quello normale, e attraversare un vero processo nella propria conoscenza. Si può anche, col trarre fuori ulteriori forze dall’interiorità dell’anima, continuare a coltivare quello con cui oggi la maggioranza degli uomini considera essere giunto al limite ultimo della facoltà conoscitiva, facoltà che tutt’al più si ammette possa venire logicamente affinata dalla scienza o dai metodi sperimentali. Ecco il processo su cui si fonda il metodo antroposofico: il processo di suscitare nell’anima le sue facoltà latenti.
E, per darvi subito una definizione concreta, dirò: Il metodo antroposofico sta nel sottomettere completamente alla volontà il pensare consueto, che suole appoggiarsi soltanto al mondo esterno. Infatti, come pensiamo noi nella vita solita? Come pensiamo nel campo della scienza? Pensiamo abbandonandoci al mondo esterno o alle esperienze: pensiamo proseguendo il filo delle esperienze, dei fenomeni apparenti. E’ vero che fino a un certo grado applichiamo la volontà al pensiero quando formiamo giudizi, quando tiriamo delle conclusioni.
Ma ben altro avviene se il pensiero, che di solito vive solo involontariamente nell’uomo, viene da esso preso in mano, per così dire, con tutta l’energia di un’autoeducazione interiore. L’uomo può allenare le sue forze animiche ben più che non lo faccia nella vita comune, ed anche nel campo scientifico, se fa ripetutamente per anni determinati esercizi. Se, per esempio, egli colloca nel centro della sua coscienza delle rappresentazioni facilmente abbracciabili con lo sguardo (dico: facilmente!) e ciò solamente per sua deliberata volontà, non per stimoli esterni; se quindi – e ciò pure per uno sforzo di tutta la sua volontà – egli si fissa su tali rappresentazioni interiori, distogliendo l’attenzione da tutto il resto, e restando interiormente fermo sopra un complesso di rappresentazioni che egli stesso ha collocato al centro della sua coscienza.
E come un muscolo acquista una certa forza esercitandolo, così anche le energie animiche acquistano una determinata forza mercé l’esercizio. Lo studioso dello Spirito le sviluppa in una direzione ben definita sottoponendosi alla disciplina di questo metodo interiore, di questo intimo metodo animico da me già descritto ampiamente nei libri “Come si raggiunge la conoscenza dei mondi superiori”2, “Scienza occulta”3 ed altri. Ivi ho descritto in dettaglio ciò che qui oso soltanto accennare come principio.
Vi ho chiamato “Concentrazione” e “Meditazione” quel processo che l’anima compie su di sé, secondo il metodo interiore intimo della Scienza spirituale. E qui occorre rilevare che non si tratta di cose da sbrigarsi in breve tempo (s’intende che ce ne vorrà più o meno, a seconda della disposizione speciale dell’individuo) però in generale si può dire che l’indagine spirituale non richiede tempo maggiore di quello che richiedono le scienza mediche, chimiche o astronomiche. Come ci vuole un tirocinio di parecchi anni per rendersi padroni di codesti metodi scien tifici, così e con una fortissima energia interiore di concentrazione, con una scrupolosità ancor più grande, si arriva a trarre fuori dall’anima propria quelle facoltà animiche solitamente dormienti nell’uomo.
E per questa via, applicando all’anima questi metodi, si giunge ad allargare la facoltà conoscitiva. Allora veramente si vede come all’uomo è dato conoscere ben altro ancora al di là di quello che può conoscere per mezzo della sua visione sensoriale, e della combinazione di apparenze che si offrono ai sensi in genere. L’una delle vie è dunque questa che passa per la concentrazione, per la facoltà rappresentativa e conduce alla veduta interiore, a ciò che nel mio libro “Enigmi dell’anima”4 ho chiamato “la conoscenza veggente” dell’uomo.
Ma le forze dell’anima si possono coltivare anche in altro modo, anzi è indispensabile il farlo, se si vuole realmente giungere ad un risultato. E qui si tratta di elaborare quella facoltà ben nota a tutti nella sua forma più semplice, che è l’attenzione. Sia di fronte alla vita esteriore, sia di fronte a quello che ci appare nel nostro intimo, noi non ci abbandoniamo mai passivamente alle cose, ma dirigiamo la nostra attenzione, la nostra osservazione sopra un punto speciale, che ritagliamo fuori, per così dire, dal mondo circostante.
Anche nell’investigazione scientifica dobbiamo porre una cosa nel centro della nostra indagine, e ricollegare ad essa tutto il resto. Allorché dunque coltiviamo l’attenzione, ricorrendo ancora alla volontà interiore, ossia allo sforzo di tutte le energie animiche più attive, allorché facciamo ripetutamente dati esercizi che siamo consapevoli di usare quando ci mettiamo sull’attenti davanti a una cosa; allorché esercitiamo quella energia che consiste nel concentrare la nostra vita animica sopra una cosa che abbiamo come ritagliata fuori dal resto del mondo, e perseveriamo in questa disciplina, noi giungiamo a fare delle scoperte singolari. Ci accorgiamo cioè di aver elaborato via via sempre più in noi quella forza animica che solitamente ci appare soltanto in quello che chiamiamo “interesse per quanto ci circonda”. In genere noi sentiamo più interesse per una cosa e meno per un’altra; c’è come una scala in questo rapporto dell’anima verso il mondo esteriore.
Questo interesse può diventare di una vivacità straordinaria, può acquistare una vivacità che lo trasforma in tutt’altro di ciò che è nella vita comune e nella vita scientifica. Arriva fino all’unificazione delle cose, fino a rendere l’animo una cosa sola coll’essenza degli oggetti. Questa esperienza di una forza d’interesse sublimata può giungere più avanti ancora. Può giungere fino a creare una forza speciale, che di solito si fa valere soltanto in un altro campo della vita, ma che mediante la Scienza dello Spirito antroposofica si trasmuta in forza di conoscenza. (Ed eccoci di nuovo in un punto in cui, enunciando ciò che per l’Antroposofia è puro risultato d’indagine, e come tale si manifesta, corriamo il rischio di passare senz’altro per dilettanti o per visionari: cosa, del resto, comprensibilissima, dati i punti di vista oggi prevalenti). Quella facoltà dunque la quale in sé a tutta prima non è che semplice attenzione, si trasmuta in quel tal potere di partecipare con interesse alle cose, grazie al quale si prova con tanta chiarezza come tutto l’uomo possa uscire da sé stesso.
Egli può uscirne in modo che non gli occorrano prima dimostrazioni od ipotesi per sapere, se alla base del color rosso o azzurro stiano queste o quelle vibrazioni, ma in modo da trasfondersi, direi, nel colore stesso: da sperimentare quasi uno svolgimento continuativo del processo così magistralmente svolto da Goethe nella sua “Dottrina dei colori”, nel capitolo in cui tratta dell’azione “sensoriale etica dei colori”. L’uomo sente allora realmente la sua vita animica fluire fuori, fluire in certo modo nell’universo: la sua facoltà conoscitiva gli si palesa come un espandersi, un traboccare della vita interna dell’universo. Così la facoltà conoscitiva dell’uomo viene a trasmutarsi in ciò che di solito nella vita denominiamo “amore”.
L’amore, mercé il quale diventiamo “uno” con un altro essere, nella vita comune è, vorrei dire, al suo primo principio. Mediante gli esercizi animici descritti, esso diventa una facoltà dell’anima che si diffonde, conoscendo, in tutto il mondo circostante. Si può dunque dire (qui non posso che dare dei cenni, ma tutto questo si trova svolto molto più ampiamente nei miei libri) che nuove forze di conoscenza si destano nell’uomo, che l’uomo sperimenta un allargamento della conoscenza, se coltiva da una parte la sua facoltà di rappresentazione, dall’altra la facoltà fondamentale della vita volitiva, che è l’attenzione, la forza dell’interesse, la forza dell’Amore.
Ciò che si suole chiamare “il limite della conoscenza”, e che spesso appunto dagli scienziati moderni viene dichiarato limite insuperabile, non può in realtà venire oltrepassato se non grazie ad un tirocinio delle forze animiche interiori, e non già armando l’occhio di microscopi, telescopi e apparecchi Roentgen. Lo si varca grazie ad una evoluzione dell’interiorità umana. Orbene, questa facoltà di conoscenza che una vota sviluppata in noi ci fa oltrepassare il sensibile e la combinazione che del sensibile opera il raziocinio, questa facoltà rivela all’uomo un mondo che non è già una seconda edizione, diciamo, di quello sensibile, ma che è il vero mondo dello Spirito. Avviene cioè che per tale via l’uomo risveglia e suscita in sé la vita spirituale, che in lui lavora soprasensibilmente. Poiché è appunto questa che viene destata in lui mediante le due forze sopra descritte, quando siano svolte e condotte con quella esattezza e precisione che sono proprie di solito solo alla matematica. Per lo sviluppo di queste forze egli avanza nella conoscenza, non già per via di speculazioni sugli atomi e sulle molecole, ma per un’esperienza e visione diretta di ciò che appare ai sensi, e dietro alle cui apparenze egli viene a riconoscere il mondo soprasensibile che ne sta alla base, come il suo corpo fisico sta alla base del suo essere animico-spirituale. L’uomo viene allora a conoscere il Mondo dello Spirito.
La Scienza dello Spirito antroposofica che si coltiva nel Goetheanum di Dornach, non va confusa con quella scienza che oggidì, spesso e volentieri, tenta di investigare lo spirito, imitando i metodi dei laboratori scientifici. Vi è oggi chi crede di poter penetrare più addentro nella natura delle cose mediante procedimenti, esperimenti esteriori – basti nominare lo spiritismo – chi vorrebbe arrivare a conoscere il soprasensibile per mezzo di indagini sensibili. Ma il punto essenziale sta appunto in ciò: che il soprasensibile può venir conosciuto unicamente da forze soprasensibili.
Queste forze soprasensibili dormono a tutta prima nell’uomo, perché occorre che data la natura dell’essere suo fra nascita e morte, egli diventi anzitutto atto e capace alla vita dei sensi. E deve quindi sviluppare in sé, evolvere in sé, delle facoltà soprasensibili se gli preme arrivare a conoscere ciò che sta alle radici dell’esser suo quale entità eterna, imperitura, che va al di là della nascita e della morte, che gli apparteneva già prima del suo ingresso in questa esistenza attraverso la nascita, che ancora conserverà dopo varcate le porte della morte.
Voglio solo accennare come di fatto, coll’inoltrarsi in questa facoltà conoscitiva soprasensibile, si schiudano all’uomo delle regioni che non gli si possono aprire per altra via: le regioni appunto che stanno al di là della nascita, e al di là della morte. Arrivo a dire persino che il nostro linguaggio è là a provarci la nostra unilateralità a questo proposito. Abbiamo la parola “immortalità” che deriva, è vero, dalla fede e non dal sapere. Ma questa immortalità non vuol parlare che della vita che è al di là della morte. Dischiudendoci i mondi soprasensibli, la Scienza dello Spirito ci rivela come l’uomo esista nel mondo dello Spirito già prima della nascita, ossia della concezione. Il fatto che noi non possediamo un vocabolo che definisca il non essere ancora nati, la “innatalità”, se così si può dire, dell’essere nostro sta a provare appunto che presentemente non abbiamo ancora ammesso una vera Scienza dello Spirito.
Non appena l’uomo penetra nel mondo soprasensibile, non solo per fede, ma per certa scienza, subito la visione si estende non solo verso l’immortalità del suo essere, ma anche verso la sua ” innatalità”. Ho voluto accennare a tutto questo perché il mio compito di oggi consiste nel dimostrare come questa Scienza antroposofica sia assolutamente formata a norma di una scienza esattissima, ma anche essa tratta fuori dell’interiorità umana, cioè della matematica: perché questa Scienza dello Spirito può veramente aprire la via ai mondi soprasensibili. Noi attingiamo le verità matematiche dal nostro interno, e chi abbia capito la verità del teorema Pitagorico, venissero pure a negargliela mille persone, anche un milione: pel solo fatto di averne accolto il contenuto nella propria coscienza, egli sarebbe sicuro della sua verità. Lo stesso è delle esperienze interiori soprasensibili, che vengono messe in luce dalla Scienza dello Spirito.
Questa scienza oggi è già sviluppata in molti particolari, e può come accennai da principio, esercitare un’azione fruttuosa sia sulle singole scienze, sia sulla vita pratica. La primavera scorsa, per esempio, tenni io stesso a Dornach un corso di lezioni per medici e studenti di medicina, poiché la Scienza dello Spirito studia già ampliamente nel campo medico e terapeutico, e ivi tentai di dimostrare come mediante le osservazioni scientifico-spirituali si possa raggiungere una terapia molto più razionale dell’odierna. Abbiamo anche già fondato delle istituzioni pratiche, come per esempio il “Futurum” a Dornach 6 : questa è un’impresa puramente pratica, un’associazione di differenti rami d’industria che, mediante un’amministrazione razionale, vuol lavorare meglio e progredire di più che non si sia fatto finora coi metodi vecchi, i quali ci hanno portato economicamente a tanta catastrofe.
Poiché, anche tutto quello che ha attinenza alla vita pratica, sta a testimoniare come l’umanità sia giunta oggi ad un confine che è necessario oltrepassare. Oggi non è mio compito trattare di questi altri campi, nei quali la Scienza dello Spirito mostra assolutamente fin da ora con la pratica vissuta, quale sia la sua produttività. Voglio parlarvi oggi, più che altro, di quell’incremento vitale che dalla Scienza dello Spirito può ricevere il campo educativo: l’arte pedagogica.
Rileverò prima di tutto che il sapere che si può acquistare nel modo che abbiamo descritto, è ben diverso da quello che è stato proprio all’umanità, specie negli ultimi tre o quattro secoli. Questo, sebbene si fondi sull’esperimento e sull’osservazione, viene elaborato essenzialmente dall’intelletto e parla anche solo all’intelletto. E’ essenzialmente un sapere di testa. Invece il sapere che si acquista mediante la Scienza dello Spirito antroposofica, parla all’uomo tutto quanto: non afferra soltanto il cervello, ma si espande in modo da pervadere anche il nostro senti mento.
Non già che noi attingiamo direttamente alla fonte del sentimento, ché in tal caso mancherebbe la limpidezza voluta, e si cadrebbe in un nebuloso misticismo; no, noi non attingiamo la conoscenza dal sentimento. La nostra conoscenza viene conseguita per veggenza. Ma il sapere che viene raggiunto così spiega poi un’azione sulla vita del sentimento, vivifica la vita volitiva, sprona l’uomo ad elaborare l’essenza di tale sapere fin nei dettagli della vita quotidiana, e come il sangue compenetra il corpo dandogli la vita, così questo sapere compenetra tutta l’anima, comunicando il suo impulso anche alle funzioni materiali, agli impulsi della vita pratica. Si può dire che da questo sapere l’uomo intero rimane preso e conquistato.
E appunto per questo la Scienza dello Spirito antroposofica, quando compenetra un individuo, è ottima base per il compito di maestro, di educatore della generazione che cresce. E’ noto come oggi si insista da ogni lato che l’arte pedagogica deve poggiare sulla psicologia, sulla cognizione dell’anima. Ma se poi si considera che cosa è “psicologia” per i nostri contemporanei, allora ci si palesa appunto, grazie alle discussioni e alle controversie infinite che si fanno in proposito, come essa sia frase vuota, e come in genere questa nostra scienza contemporanea sappia penetrare poco addentro nella vera cognizione dell’uomo, pur vantando sì grandi conquiste nell’indagine della natura esterna.
Ed è questo il carattere speciale della Scienza dello Spirito antroposofica: che essa non fonda le sue ricerche sulla psichiatria esteriore sperimentale, (non per questo intendiamo combattere la psichiatria, che potrà anzi dare risultati sempre più fruttiferi, quanto più essa si lascerà vivificare dalla Scienza dello Spirito) ma trasmette quella conoscenza dell’anima umana che ci vuole per essere educatore e maestro: perché coi suoi metodi si impara a conoscere quello che realmente vive nell’uomo, cioè corpo, anima e spirito, si impara a conoscere l’uomo interiormente. Ho già descritto come la Scienza dello Spirito cerchi per mezzo dei suoi speciali metodi di indagine, di afferrare intimamente quello che vive intorno a noi. E l’uomo, soprattutto quando lo si vuol trattare pedagogicamente, occorre penetrarlo nella sua più intima natura.
Ora, è certo che la nostra epoca è incapace di gettare un ponte tra l’animico-spirituale da un lato, e il fisicocorporeo dall’altro. Tutte le ipotesi psicologiche fatte finora hanno per meta di chiarire il più possibile codesto problema che ci sta davanti, cioè il rapporto che corre fra corpo e anima, o fra lo spirituale-animico e il corporeo-fisico; di chiarirlo quanto è necessario soprattutto a chi vuole diventare insegnante o educatore. Ma la psicologia attuale, appunto perché non investiga col metodo scientifico-spirituale, non è abbastanza avanti da poter fornire le basi per una pedagogia giusta, per una vera arte pedagogica.
Devo qui accennare a un concetto che ho per ora solo abbozzato nel mio libro “Enigmi dell’anima”, ma che per me costituisce il risultato di trent’anni di studio. E solo dopo trent’anni di studio, non certo prima, mi sarei permesso di dire o di scrivere, come feci nella detta opera, quello che sto per esporre ora.
Ed è questo: Oggi si ritiene generalmente che l’unico veicolo della vita animica sia il sistema nervoso, si considera il sistema nervoso l’unica base fisica della vita animica umana. Ma non è così. Si può dimostrare fin nei minimi dettagli (ed io ho additato anche questi dettagli nel mio libro), che soltanto quello che chiamiamo vita rappresentativa ha per base fisica il sistema dei sensi e dei nervi, mentre l’organo vero e proprio della vita del sentimento non è già nell’uomo il sistema dei sensi e dei nervi, bensì il sistema ritmico, ossia il sistema della respirazione e della circolazione del sangue.
Come il sistema nervoso sta alla base delle rappresentazioni, così il sistema ritmico sta alla base del sentimento. E a base della volontà sta il sistema del ricambio della materia. Ora, questi tre sistemi comprendono tutti i processi della vita umana interiore. L’uomo si può dire è un essere triplice. Ma naturalmente non bisogna figurarci che queste tre parti che lo costituiscono, cioè il sistema dei sensi e dei nervi, il sistema ritmico e quello del ricambio della materia, esistano l’uno accanto all’altro.
No, essi si interpenetrano ed è solo in maniera animico-spirituale che si possono separare, se si vuole comprendere chiaramente la natura umana. E’ evidente che anche il sistema nervoso va nutrito, dunque il sistema del ricambio si insinua che nel sistema nervoso; e si insinua pure negli organi del sistema ritmico, ciò non toglie che gli organi del sistema ritmico servano alla volontà solo in quanto agisce in loro il ricambio della materia, mentre in quanto rappresentano veri movimenti ritmici servono alla vita di sentimento.
E quando il nostro sistema ritmico-respiratorio a sua volta viene a contatto col sistema nervoso per via indiretta, mediante il liquido cefalorachidiano, si produce reciprocità d’azione tra il sentimento e la rappresentazione.
Insomma, l’uomo è un essere più complicato di quel che non si creda di solito. In ultima analisi, coi metodi odierni delle scienze naturali non si arriva ad una giusta conoscenza dell’uomo, nemmeno dal lato fisico. Ad una conoscenza dotata della veggenza interiore di cui ho parlato, che sa immergersi nell’essere stesso che vuole studiare, e vederne l’elemento animico nella sua azione sull’elemento fisico-corporeo; ad una conoscenza siffatta anche il fanciullo, l’uomo in via di divenire, appare in una nuova luce.
Per chi non voglia spiegare il mondo solo con fredda intellettualità, ma lo comprenda con calore di sentimento, è pure un meraviglioso enigma questo fanciullo crescente, che di giorno in giorno, di settimana in settimana, di mese in mese, di anno in anno, va manifestando sempre più nel suo esterno un elemento interiore! E’ questo elemento interiore che noi non possiamo osservare soltanto con la nostra facoltà di conoscenza astratta, ma che possiamo osservare invece se sappiamo noi stessi immergerci con la nostra interiorità in ciò che appare sul volto, sulle movenze, nella favella ecc. Ebbene, questa nuova maniera di conoscere non viene a noi per solo tramite dell’intelletto (l’intelletto ci servirà poi per riconoscere i mezzi esteriori che dovremo impiegare per educare e istruire il fanciullo), questa nuova maniera di conoscere che ci offre la Scienza dello Spirito antroposofica afferra l’uomo intero e ne compenetra non solo l’intelletto, ma il sentimento e la volontà, con la medesima spontaneità con cui il sangue vivificato dal respiro compenetra il corpo umano.
Così a questa nuova conoscenza il fanciullo che cresce si rivela in tutta la reciprocità d’azione del corpo, dell’anima e dello spirito, e l’educatore si sente ad esso congiunto non solo con l’intelletto, ma col sentimento e con la volontà. Egli sa con tutta immediatezza che riconoscendo veramente le vie dello sviluppo infantile, saprà pure ciò che in ogni momento dello sviluppo infantile va fatto per bene educare. Come l’aria mette in moto il nostro sangue nel modo voluto, come l’organismo compie le sue funzioni per mezzo delle energie che il mondo esterno gli conferisce, come esso viene afferrato e pervaso dall’azione che il mondo esterno esplica in lui, così la nostra vita animico-spirituale viene pervasa e afferrata da quella conoscenza viva che ci trasmette la Scienza dello Spirito. Allora – allora soltanto – ci si manifesta ciò che evolve nell’uomo quale individualità sua propria, ed impariamo a trattare questa individualità, a educarla ed istruirla in maniera veramente interiore.
Non chiedete alla Scienza dello Spirito che essa stabilisca dei nuovi principi di educazione. I grandi pedagogisti hanno già scoperto ed enunciato le massime educative fondamentali più belle (lo dico con profonda convinzione), le regole pedagogiche più belle e più profonde, e la Scienza dello Spirito è ben lontana dal negare la vasta genialità dei grandi pedagogisti del diciottesimo e diciannovesimo secolo. Ma qui si tratta di cosa diversa, che bisogna rilevare ben chiaramente. Oggi si dice e si va ripetendo già da decine di anni, che l’educazione non deve svolgersi in modo da riempire continuamente il fanciullo di cose che gli vengono portate dal di fuori, ma in modo da sviluppare ciò che è in lui, che è sua particolare individualità.
Doversi insomma trarre fuori tutto dal fanciullo stesso. In forma astratta, anche la Scienza dello Spirito deve dire lo stesso, ma appunto per questo viene fraintesa. Mi spiegherò meglio con un esempio: Nel 1858, quando il socialista Proudhon fu incolpato di mettere a soqquadro la società, alle diverse accuse dei suoi giudici egli replicò semplicemente che non aveva nessuna intenzione di scompigliare la società, ma anzi voleva ricondurla a condizioni migliori. I giudici a loro volta risposero: “Questo è quello che vogliamo anche noi!” Dunque, finché si trattava di enunciazioni teoriche, l’accusato e i giudici volevano precisamente lo stesso! Così, se la Scienza dello Spirito dice: noi vogliamo sviluppare l’individualità umana, si può certo trovare che, così in astratto, è una cosa che si chiede da molti, e da un pezzo! Ma qui non è questione di formulare un tale principio solo astrattamente.
E’ questione di arrivare a vedere, per mezzo di una veggenza viva e reale, come questa individualità umana cresce e si sviluppa, di arrivare veramente ad afferrare l’entità intima dell’uomo. Ed ora vorrei descrivere come si presenta l’uomo nel suo divenire, grazie a quello che scopre in lui la Scienza dello Spirito. Distinguiamo innanzi tutto nella sua vita dei ben determinati periodi. Il primo di questi periodi va dalla nascita alla seconda dentizione, circa al settimo anno. Allora in tutto l’essere umano (corpo, anima e spirito) ha luogo un rivolgimento che si rivela con la massima evidenza a chiunque osservi correttamente. Indi lo sviluppo procede fino circa alla pubertà, quando un secondo rivolgimento si compie. In questi periodi lunghi, se ne distinguono altri più brevi. Direi che si osservano tre sotto-periodi in ognuno dei periodi principali.
E l’osservazione non può mai essere esauriente se non si addentra nelle recondità dell’essere in via di sviluppo: qui sta il punto! Poiché la conoscenza dell’uomo diventa in pari tempo sprone alla volontà, nell’esercizio della pedagogia, la quale viene in tal modo elevata alle qualità di un’arte vera e propria. Il primo periodo fino al settimo anno ci palesa essenzialmente l’uomo come un essere che, spirito, anima e corpo, inclina tutto quanto all’imitazione. Si comprende l’uomo in questo periodo, allorché si penetra nella sua natura, in modo da scorgere la disposizione spiccata con cui tende ad eseguire, a portare ad atto in sé quello che gli si palesa nel mondo circostante.
Ma questo va osservato in modo ben concreto. Si osserva allora che durante i primi due anni e un quarto di vita circa (s’intende che sono cifre approssimative) questa tendenza imitativa non si manifesta ancora come tale, ma vigono internamente delle forze organizzatrici le quali poi, procedendo l’uomo nel terzo anno di vita, si mostrano nella maggiore attenzione che il bambino sviluppa di fronte ai suoi simili; in certo modo si può dire che egli dirige queste forze ad osservare quello che emana dalle persone intorno a lui.
Poi, intorno al quinto anno di vita, l’uomo diventa propriamente un essere imitativo, fenomeno che bisogna saper osservare così intimamente come lo richiede un rapporto giusto tra uomo e uomo, dunque anche fra educatore e allievo. Questo giusto rapporto ci dà la comprensione dell’importanza profonda che ha per lo sviluppo umano il fatto che tale periodo di vita è così incline all’imitazione. Capitano esperienze varie a chi si occupa di queste cose, sto per dire, professionalmente. Succede per esempio che padri e madri vengono a lagnarsi che il loro figlio ha rubato.
Si chiede: “Ma cos’ha fatto questo bimbo?” “Si figuri, ha aperto il cassetto dell’armadio, ne ha levato dei denari e se ne è servito” (racconto un fatto reale) “per comprare delle ghiottonerie. E non per sé solo, ma per distribuirle ai suoi compagni”. In questo caso bisogna rispondere: “Ma questo non è affatto rubare, data l’età del bimbo! Si tratta di questo: il bimbo vi vede ogni giorno andare all’armadio e prendere il denaro aprendo il cassetto. Ha provato a fare altrettanto: il bimbo vi ha imitato”. Il bimbo imita.
Durante i primi sette anni di vita non c’è altro mezzo per allevare il fanciullo che dargli un esempio vivente, inducendolo all’imitazione di ciò che si vuole istillargli mediante l’educazione. E’ perciò di somma importanza che durante i primi sette anni, per il fatto che sono in gioco delle influenze imponderabili tra gli educatori, genitori e i bambini, – è di somma importanza dico non soltanto di dare esempi degni di imitazione rispetto ad ogni nostra azione esteriore, in modo che tutto possa venire imitato liberamente, ma occorre bensì un riguardo portato fin nei pensieri, fin nei sentimenti: occorre studiarsi di pensare e di sentire soltanto ciò che sulle nostre orme giova al bambino di ripensare e di risentire. Non vi sono barriere tra noi e un bimbo che cresce nel nostro ambiente! Forze misteriose trasmettono al bambino sino il più recondito fluire nel pensiero nostro. Bisogna sapere che un galantuomo, un uomo amante della verità, si muove, gesticola e cammina in modo differente da un bugiardo.
Questo fatto si cancella alla nostra visione esteriore allorché procediamo negli anni, ma per il bambino questo fatto esiste. Non già che egli veda per sola virtù della sua facoltà di rappresentazione, la rettitudine di chi gli sta vicino. Ma dai movimenti, da tutto quello che esprime esteriormente l’indole, il bambino, grazie a un sapere non intellettivo, ma che s’annida nella profondità subcosciente, ravvisa e scorge per accenni misteriosi quello che egli deve imitare. Cause imponderabili esistono, non già soltanto nella natura, ma anche nella vita umana.
Quando poi in seguito il bambino ha sorpassato l’età dell’imitazione, ecco sorgere in lui quell’elemento che poi reca con sé entrando a frequentare la scuola. Nella scuola bisogna osservare in modo speciale che l’insegnamento e l’educazione facciano veramente progredire il fanciullo, rispettandone l’individualità in maniera conforme all’essenza e alla dignità umana. Già abbiamo fatto un tentativo pratico sotto questo rapporto, fondando a Stoccarda fin dal 1919 la Scuola Waldorf, dove l’insegnamento è fondato tutto quanto sui principi che provengono da questo movimento antroposofico, dalla concezione del mondo antroposofica. La Scuola Waldorf non è una scuola che voglia imporre una speciale concezione universale.
Non vogliamo affatto impartire ai ragazzi un insegnamento teorico dell’Antroposofia come fosse una religione. No, questa non è davvero la cosa che ci interessa! Noi lasciamo assolutamente a genitori e allievi la più piena libertà in proposito, né si potrebbe fare diversamente in questi tempi. Quegli scolari che desiderano un’istruzione religiosa ed evangelica, la ricevono da un pastore evangelico, quelli che desiderano l’istruzione cattolica, la ricevono dal prete cattolico, mentre a coloro che, sia per desiderio dei genitori, sia per scelta spontanea, vogliono invece un’istruzione religiosa libera, la diamo noi stessi. Non è colpa nostra se appunto nella Scuola Waldorf la grande maggioranza è costituita da questi ultimi: ciò non avviene per nostra volontà, ma dipende dall’indole dei tempi.
Non è per questo nostro proposito fare della Scuola Waldorf una scuola confessionale di una data concezione del mondo. Quello che ci preme davvero è di far fluire la conoscenza che l’Antroposofia ci dà, nell’arte pedagogica, nel modo di essa in tutto il modo di trattare il fanciullo, e non già in ciò che gli si insegna. Grazie a questo sapere antroposofico, ci avvediamo come il fanciullo, anche dopo oltrepassato con la seconda dentizione una tappa importante della sua vita, mantiene tuttavia nel settimo, fino al di là dell’ottavo anno, quella facoltà imitativa cui già accennammo.
Specie durante quest’epoca, è molto forte in lui l’elemento umano della volontà. E si dovrebbe, appunto in quest’epoca in cui il ragazzo entra a scuola, non badare tanto a sviluppare le facoltà intellettuali, quanto l’individuo completo, facendolo funzionare nella sua interezza. Mi spiegherò con un esempio: nella Scuola Waldorf teniamo conto di ciò. Non vi si inizia l’insegnamento della scrittura col far scrivere le lettere: questi nostri segni grafici odierni parlano in verità solo all’intelletto; sono diventati ormai cose convenzionali e per impararle è la sola testa che deve fare uno sforzo.
Perciò insegnando a scrivere noi prendiamo le mosse dal disegno, o meglio dalla pittura di forme visibili. Ci accostiamo a tutta prima al bimbo con un elemento artistico e da questo, cioè dal disegno, dalla pittura, svolgiamo poi le forme delle lettere. Non occorre per questo risalire allo studio di popoli selvaggi, preistorici, i quali derivarono la scrittura in modo analogo; ma non è difficile far risalire le singole lettere a quello che noi stessi siamo capaci di farne, valendoci del disegno e della pittura.
L’essenziale è di partire metodicamente da qualcosa che interessi tutto l’essere umano, che non debba solamente venir pensato, ma dia modo di esprimersi anche alla volontà. In quello che il fanciullo riproduce dipingendo, vive il suo essere intero, tutto il suo essere si unifica con ciò che egli sta creando. Dopo di questo è lecito passare a quel tanto che deve fare appello anche all’intelletto, svolgendolo indirettamente da ciò che ha già catturato le facoltà umane complessive. Dunque, noi prendiamo le mosse per l’insegnamento della scrittura dall’elemento artistico, che agisce innanzi tutto sulla natura volitiva del fanciullo; poi facciamo sviluppare dalla volontà anche la parte più intellettuale dell’insegnamento.
Così viene messo in moto anche il sentimento: poiché il bambino prova in sé dei sentimenti quando prima crea delle forme e poi le trasforma più specialmente nei segni grafici esistenti. In seguito passiamo a sviluppare più specialmente l’insegnamento della lettura, partendo da quello che abbiamo per tal modo trasformato in una scrittura vera e propria: così dunque noi facciamo appello a tutte le facoltà e non unilateralmente al solo intelletto. Attenendoci a siffatta via, ci risulta chiara la differenza tra l’insegnare senz’altro al fanciullo secondo le vedute della vita sociale di oggi, una cosa con la quale egli non si sente ancora in alcun rapporto, e il suscitargli dall’intimo suo ciò che già vi sta in germe, e che è radicato in tutto il suo essere. In questo periodo, dal settimo anno alla pubertà, osserviamo che il fanciullo nel suo sviluppo interiore, non si orienta più unicamente secondo l’istinto di imitazione, che dura solo fino a dopo l’ottavo anno, e si ricollega particolarmente alla volontà: ma vediamo a poco a poco subentrare nella sua vita una forza affatto nuova, un elemento che vorrei chiamare “il rispetto naturale all’autorità”.
Anche questo è un elemento di cui certamente si parla oggidì più o meno, ma che non viene guardato con quella giusta veduta che la sua importanza richiede. Come la pianta, per poter sviluppare il suo fiore, deve avere al tempo voluto e nella maniera voluta le forze di crescenza che le sono necessarie, così il fanciullo nel periodo fra la dentizione e la pubertà deve sviluppare in sé il rispetto naturale all’autorità, poiché tale sentimento fa parte del complesso di forze di crescenza fisicheanimiche-spirituali indispensabili al suo sviluppo.
Egli deve appoggiarsi al suo Maestro, al suo Educatore e appunto come nel periodo precedente viveva di imitazione, così ora quel che gli si insegna e che egli crede, e che diventa perciò contenuto del suo sentire e del suo volere, bisogna che egli lo accetti per il fatto che lo vede rispecchiato nel contegno del suo Maestro, che lo ode pronunciare da lui. Bisogna che il fanciullo possa innalzare lo sguardo verso il suo Maestro, in modo che tutto ciò che in esso vede vivere ed agire diventi la sua propria norma e direttiva.
Non si creda, nella nostra epoca spregiudicata, o in una prossima epoca più spregiudicata ancora della nostra, non si creda di poter raggiungere per altre vie i medesimi risultati – no, nulla può sostituire ciò che viene per tal modo spontaneamente crescendo nel fanciullo grazie a questo sentimento elementare dell’autorità, grazie a questo abbandonarsi al Maestro, all’Educatore! E avrà un’importanza enorme per tutta la sua vita il fatto se sì o no egli avrà vissuto fra il settimo e il quattordicesimo anno a fianco di maestri e educatori pei quali abbia potuto sentire spontaneamente questo rispetto all’autorità. E qui tocchiamo un punto in cui il pensiero materialista va completamente fuori strada, col dire per esempio: “Che cosa conta infine l’individualità del maestro nella sua azione sull’alunno! Dobbiamo più che altro istruire il fanciullo col metodo oggettivo, dobbiamo portarlo a pensare e sentire da sé, per stimolo proprio”.
Non mi dilungherò ad esporvi fino a quale bassezza ci abbia condotti in certi sistemi di insegnamento, il preconcetto di nulla insegnare all’allievo fuorché quello che già capisce, così da poterselo analizzare colle proprie opinioni. Rileverò invece quanto segue: quello che importa grandemente durante il periodo in questione è che il fanciullo non si appropri unicamente quello che è oggettivo, che cade sotto gli occhi, ma che accolga in sé quello che può accettare in grazia dell’autorità d’altri, anche se a tutta prima non lo comprende, anche se dapprima lo accetta appunto per virtù di questo rispetto per una persona autorevole.
Poiché come nei primi sette anni a base dell’istinto di imitazione sta la forza volitiva, così ora tra il settimo anno e la pubertà, tutto quello che il fanciullo manifesta esteriormente è fondato invece sulla memoria. Il fanciullo vuole ora, vuole veramente appropriarsi le cose per mezzo della memoria e sotto l’influsso di persona autorevole. La viva contrarietà che oggi esiste a che il fanciullo si appropri delle cognizioni per via della memoria, prova appunto che oggi si costruisce la vita pratica in tutte le sue manifestazioni su belle teorie, ma senza tener conto della realtà complessiva della vita umana.
Due fatti vengono trascurati da chi vuole ottenere tutto dal mondo oggettivo. Primo, che esistono vastissimi campi della vita che non possono assolutamente venire posti dinnanzi alla visione dei sensi, e cioè il dominio del bello, e più ancora il dominio etico-religioso.
Chi vuol fondare ogni insegnamento sul metodo oggettivo non considera che il patrimonio più prezioso dell’uomo, senza di cui non potrebbe esistere, cioè l’elemento etico-religioso e gli impulsi che ne derivano, non può venirgli presentato con metodo oggettivo (specie nel periodo di vita sopra descritto), ma deve da lui venire afferrato appunto soprasensibilmente. E in questi anni in cui è bene che questi impulsi afferrino l’anima del fanciullo, ciò non può avvenire che per via del rispetto all’autorità. Questo è il primo punto.
Veniamo al secondo: se si prende a considerare la vita umana nel suo insieme e non se ne guarda teoricamente un solo periodo alla volta, ci si rende conto della grande importanza della seguente esperienza: arrivando sui trentacinque o quarant’anni e guardando indietro alla nostra infanzia, troviamo di avere allora imparato delle cose che abbiamo accolto in noi senza capirle, solo perché sentivamo che colui che ci stava davanti come insegnante sapeva bene di che si trattava, sapeva bene che era così.
E abbiamo accettato quelle cose sull’autorità del nostro maestro. Da allora sono passati anni e anni. La cosa appresa allora risale ora alla superficie della nostra coscienza ed eccoci ora maturi per comprenderla. E’ diventata un’energia vitale. Meraviglioso invero è questo veder riaffiorare dalle profondità dell’anima una cosa per la quale ci si è resi maturi procedendo nella vita, ma il germe della quale fu piantato in noi durante la giovinezza! E’ un mezzo per non invecchiare, è una forza, è un elemento di vitalità! E’ immensa la forza che ci viene così da quello che abbiamo accolto in noi durante l’infanzia.
Qui non si tratta di preconcetti che ci spingono a promuovere il rispetto per l’autorità, o a difendere lo studio a memoria: se lo chiediamo è per amore degli uomini che ne hanno bisogno. Perché gli uomini d’oggi invecchiano così presto nell’anima? Perché non hanno in sé forze vitali. Bisogna conoscere nei dettagli quali sono le forze che conviene piantare nell’uomo da fanciullo, se si vuole che più tardi esse risorgano dal suo intimo e ringiovanirlo. Citerò un altro esempio.
Chi ha una giusta comprensione del giocare infantile nei primi anni, mettiamo fino al quinto anno, chi in ragione del carattere dell’individualità del bambino sa disporgli piacevolmente i suoi trastulli, prepara in esso qualcosa che pure verrà ad espressione in periodi di vita molto più avanzati; ma anche per riconoscere questo occorre saper considerare la vita in tutto il suo insieme, nella sua totalità. Anche il botanico considera la pianta così, mentre la scienza che oggi si chiama psicologia, non ha riguardo che al momento transitorio.
Colui che prende a considerare un uomo tra i venti e i trent’anni, nel punto in cui entrando praticamente nella vita deve mettersi in giusto rapporto con questa per farsi un uomo abile, cosciente dei suoi fini; chi, dico, sa considerare oggettivamente, esattamente, vede come il modo in cui un uomo affronta la vita tra i venti e i trent’anni già si era preannunciato nelle caratteristiche del suo giocare infantile, tra la nascita e il quinto anno di vita.
Questo fatto dobbiamo considerarlo a fondo: è nella più tenera età che l’uomo sviluppa in sé come radice quella che poi, ben più tardi, si svolge in lui qual fiore! Ma per arrivare a comprendere tale processo è indispensabile quella conoscenza interiore che ci è data dall’Antroposofia, che penetra nei recessi della natura umana ed è il risultato di un’osservazione estesa a tutto l’uomo. Se vogliamo essere insegnati ed educatori dobbiamo in certo modo sentirci gravare sulle spalle tutta la somma dell’essere umano, dobbiamo sentire che cosa ci insegna ogni singola disposizione che scopriamo nel fanciullo.
Seguendo questa via, possiamo venire a conoscere per esempio che fino ai nove anni circa, il bambino non distingue chiaramente fra soggetto e oggetto. Per lui il mondo esterno confluisce col mondo interno. Perciò conviene, durante questo periodo, insegnare ai fanciulli, più che altro, tutto ciò che vive in forme fantastiche, in figure, in immagini; e dare in genere carattere siffatto a tutto quello che è per lui materia di studio. L’osservazione delle piante, le nozioni di scienza naturale e di storia, devono senz’altro far parte dell’insegnamento solo dal nono anno in avanti, e così, non prima dei dodici anni dovrebbero i fanciulli imparare nozioni di fisica, o di storia che non sia biografica, ma che delinei intere epoche storiche. Poiché allora soltanto tali insegnamenti trovano nell’anima infantile un’affinità su cui potersi fondare.
A nulla giova insistere nella vaga affermazione che occorre sviluppare l’individualità, questa individualità bisogna invece saperla osservare attentamente di settimana in settimana, di mese in mese. Questo metodo ha dato buoni frutti nella Scuola Waldorf, e può persuadere in ragione dell’intima sua sostanza. Poiché il maestro, che è riscaldato e animato da ciò che nasce in lui per stimolo del sentimento e della volontà, stabilisce tra sé e i suoi allievi una tutt’altra corrente che non sia la solita relazione esteriore, che non sfugge neppure all’osservazione materialista: qui si tratta di influenze sottili e imponderabili.
Mettiamo che si voglia al momento giusto accostare al fanciullo l’idea dell’immortalità dell’anima. Sarà facilissimo rivestirla di un’immagine e in verità fino ai nove anni non si dovrebbe insegnare altrimenti che per via di immagini: tutto deve trasformarsi in immagine. Ma se elaboriamo questa immagine astrattamente col nostro intelletto, se procediamo per astrazione, la nostra immagine non sarà compenetrata di vita, di tutta la nostra vita interiore. Si può dire per esempio al bimbo: “Osserva il bozzolo della farfalla, come la farfalla esce visibilmente dal bozzolo, così l’anima immortale dell’uomo si sprigiona dal corpo”.
Ma se questa immagine io la costruisco intellettualmente per un’astrazione interiore, se io stesso le sono estraneo, e l’ho combinata solo per uso del bambino, non raggiungerò nulla, non istillerò nulla nell’anima sua! Se invece io riconosco che tutta la natura è pervasa dallo Spirito (come appunto riesce naturale alla Scienza dello Spirito antroposofica), allora quell’immagine non sarà più un’immagine costruita, ma sorgerà spontaneamente dalla mia conoscenza, che il medesimo fenomeno che in una sfera più elevata ci si presenta come l’immortalità dell’anima, a un livello più basso lo ritroviamo insito nelle cose stesse, per esempio nella farfalla che si svincola dal bozzolo: allora questa immagine non è più costruita dal nostro intelletto, ma ci viene posta davanti dalla natura stessa.
Se io so questo, allora credo io stesso alla cosa che espongo al fanciullo, ho la medesima fede, la medesima persuasione che desidero trasmettere a lui. E chi osserva attentamente vedrà quale diversa azione avrò sul fanciullo se gli parlo di una similitudine cui io stesso credo, che non se gli dico soltanto qualcosa che ho escogitato col mio raziocinio e gli comunico, per la semplice ragione che io sono tanto sapiente e che lui è tanto stupido! Da tutto questo riesce evidente come siano in gioco le influenze più imponderabili.
E aggiungo questo: durante il detto periodo, che è poi appunto quello in cui il fanciullo frequenta la scuola, succede che circa fino ai nove anni perdura il predominio della volontà e l’istinto di imitazione. Ma poi subentra qualcosa per cui il fanciullo impara a distinguere sé stesso dal mondo ambiente.
Non vi è chi, osservando attentamente il fanciullo, non sappia che il bambino comincia a distinguere giustamente fra soggetto e oggetto, fra sé stesso e quello che l’attornia, soltanto tra i nove e i dieci anni. Conviene orientarsi in base a questo fatto. Quante cose nella vita si considererebbero, e soprattutto si farebbero diversamente, se si badasse a come, nello stesso punto in cui il fanciullo tra i nove e i dieci anni impara a distinguere giustamente sé stesso dal mondo ambiente, diventi indispensabile per tutta la sua vita morale avvenire, che egli possa attaccarsi con la più alta stima, con i più alto senso dell’autorità, a colui che è il suo Educatore o Maestro.
Varcare questo Rubicone fra i nove e i dieci anni senza siffatto sentimento, segna per il fanciullo un deficit che durerà per tutta la sua vita ulteriore, e che tutt’al più egli potrà in parte risarcire più tardi con grande fatica conquistando da sé, dalla vita stessa, ciò che in modo naturale avrebbe dovuto venirgli istillato da altri in questo momento della sua esistenza. Sarebbe bene perciò che l’educazione e l’insegnamento, specialmente nella classe che il fanciullo frequenta al varcare di questo Rubicone, fossero tali che noi stessi potessimo essere veramente qualcosa per lui, grazie alla nostra moralità interiore, grazie a quello che abbiamo in noi di amore vero, di sentimenti elevati.
Dobbiamo poter agire su di lui non solo mediante l’esempio, ma in modo che egli senta la verità in ogni nostra parola, in modo che possa prendere radice in lui quel sentimento sociale di rispetto che deve poi sussistere nella vita, tra il giovinetto e l’uomo adulto. Anche tutta l’educazione etico-religiosa si fonda su questo sentimento di reverenza, che il fanciullo deve sperimentare in sé in questo momento della sua vita, tra i nove e i dieci anni.
Credetelo: chi comprende il danno di uno sviluppo precoce dell’intelletto, del trascurare la necessità di agire sulla volontà mediante immagini e di non penetrare subito fin dall’inizio della vita scolastica nel campo astratto del leggere e scrivere, chi questo comprende suscita in pari tempo in sé l’atteggiamento che riesce poi così utile, quando si tratta di istillare nel fanciullo massime morali, principi etici, sentimenti religiosi. Ma se non siamo capaci di capire e valerci delle integrali disposizioni individuali dell’allievo intorno ai sette anni, fin da quando entra a scuola, quei sentimenti morali religiosi non avranno più tardi alcuna presa sull’animo suo, nemmeno col mettere in gioco l’autorità. Così si può seguire lo sviluppo infantile in modo veramente concreto. L’educatore, accogliendo in sé la conoscenza immediata dell’uomo che gli offre la Scienza dello Spirito antroposofica, e subendone l’azione, diventa un vero artista dell’arte pedagogica. Noi non erigiamo in astratto dei nuovi principi di educazione, ma siamo convinti che ciò che l’Antroposofia può dare all’uomo, quasi respiro vitale, anima tutta la sua personalità, come il sangue vivifica l’organismo.
Così che quest’uomo e Maestro, sente tanto profondamente il nesso che lega a lui il fanciullo da fondersi con lui, da rendere tutto l’insegnamento qualche cosa di naturale e di spontaneo. Vorremmo che nella Scuola Waldorf ogni maestro avesse questa disposizione d’animo rispetto agli scolari. Se noi parliamo intorno all’arte educativa, e ce ne occupiamo, non è certo per smania di dire la nostra su qualsiasi argomento, ma è perché veramente crediamo alle nostre cognizioni e ne vediamo risultare la necessità di un rinnovamento anche della Pedagogia.
La vita ai nostri tempi ci ha dato manifestazioni così tremende da mostrare all’evidenza la necessità di tali rinnovamenti. Né velleità rivoluzionarie, né sciocche ideologie, bensì la conoscenza di quel che i tempi urgentemente richiedono, spingono l’Antroposofia ad estendere a propria azione fecondatrice anche all’Arte Pedagogica. Essa vuole comprendere e sentire in modo giusto ciò che deve essere fondamentale per ogni insegnamento ed ogni educazione degni di questo nome. Il senso giusto di tutto ciò si può riassumere nelle parole colle quali anche oggi voglio concludere, convinto che se l’Antroposofia dimostrerà di capirne intimamente e veramente tutta la portata, nessuno potrà più negarle il diritto di ingerirsi di arte pedagogica e di scienza educativa.
Ripeto che esse non vi prende parte per mentalità rivoluzionaria, ma spinta dalla necessità dei tempi e a motivo delle grandi verità umane espresse nelle seguenti parole: In mano ai Maestri, in mano agli Educatori è posto 20 l’avvenire dell’umanità, l’avvenire della nuove generazioni. Dall’educazione impartita all’uomo, da come lo si imposta nella vita mentre è nel suo divenire, dipende anzitutto l’armonica fermezza interiore con cui in sé stesso, come singolo individuo, potrà percorrerla con sua propria intima soddisfazione.
E ciò a sua volta determina in qual modo potrà diventare un membro utile e buono nella società umana. Poiché l’uomo, per adempiere alla sua vera missione, deve prima di tutto stabilire in sé stesso una fermezza equilibrata, un’armonia che lo porti non già a essere sempre contento di sé alla leggera, ma ad attingere dal proprio intimo sempre nuove forze per il suo lavoro, la sua azione, per la sua convivenza amorevole col prossimo. D’altra parte dovrà essere membro utile e benefico della sua compagine sociale, per la sua capacità per la giusta penetrazione delle esigenze dei tempi, e per la comprensione dei bisogni dei suoi simili.
A renderlo tale vorrebbe cooperare la Scienza dello Spirito Antroposofica, perché essa sa di poter dare agli uomini d’oggi una conoscenza tutta speciale dell’uomo, e in seguito a questa un’arte tutta speciale di trattarlo e di educarlo.