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(da oo 60 – 2a conferenza) Berlino, 27 ottobre 1910

 

E’ interessante seguire col pensiero i movimenti della materia dopo la disgregazione del corpo umano. Cosa diventano, in seguito alla morte, l’ossigeno, il carbonio, l’azoto e le altre sostanze che il corpo contiene? Molti si lasciano suggestionare dalla frase “eternità della materia”; altri non sanno rappresentarsi lo spazio infinito ed il moto se non pieno di materia e di effetti materiali.

Dobbiamo tener presente, quando si sollevano simili quesiti, di fissare il senso delle nozioni e dei concetti che si usano. Così, quando si cerca di stabilire il significato dell’idea della morte e della vita, si ritiene assolutamente impossibile parlare nello stesso senso della morte di una pianta, di un animale o di un essere umano. Anche il grande Huxley ci presenta, nella sua fisiologia, un esempio caratteristico. Egli parla dei segni distintivi della morte locale, legata ad un punto preciso, alla morte dei tessuti organici, ed in pari tempo egli espressamente afferma che la vita umana dipende dal cervello, dai polmoni e dal cuore.

E’ una trinità che in fondo risale ad una dualità. Cosi che se noi trattenessimo artificialmente il respiro, potremmo artificialmente asportare il cervello senza che l’uomo cessi di vivere. Il cervello non è indispensabile alla vita. Questa concezione, in una parola, ci viene a dire che l’uomo può continuare ad esistere come un fenomeno organico con una respirazione artificiale senza avere la più piccola nozione di ciò che avviene in lui o attorno a lui. In queste condizioni non si può parlare di morte, quantunque non vi sia più il cervello.

Questa vita senza il cervello sarebbe ben lontana dal sorriderci e se anche non si contraddice formalmente a queste conclusioni è d’altra parte certo che questa definizione scientifica della vita non è applicabile all’uomo. Come si potrebbe identificare la vita di un simile organismo con la vita umana, malgrado l’esattezza dei fatti citati? Ma anche nel dominio scientifico si è andati avanti e non si osava a quel tempo parlare di vita perché si riconduceva ogni vita ad un fenomeno micro organico e questa stessa vita del microrganismo era considerata come un fenomeno chimico assai complesso.

Se ci si elevava a considerazioni generali sull’universo si affermava 1 Seconda conferenza del ciclo del 1910 alla casa degli architetti di Berlino. Nel testo tedesco, ma qui non è stato tradotto, compariva in apertura una citazione dalla famosa scena del cimitero dell’Amleto di Shakespeare, cui si fa cenno anche in chiusura, prima dello Spruch finale. 2 che questa parte infinitesimale della vita non moriva e che si poteva parlare di una continuità della materia. Attualmente, grazie a scoperte come quella del radio, il concetto della eternità della materia è stato assai scosso. E’ necessario rilevare che oggi si è cessato di stabilire una specie di autonomia degli esseri infinitamente piccoli. Questi, si dice, si moltiplicano dividendosi, uno diventa due, due diventano quattro e sarebbe quindi in queste condizioni impossibile parlare di morte poiché ci troviamo di fronte ad una incessante continuità. Coloro che affermano l’eternità degli esseri cellulari cercano di trovare una definizione della morte, ma giustamente la loro definizione è estremamente caratteristica. Essi considerano che la proprietà della morte è il cadavere. Ora, poiché gli esseri monocellulari non lasciano dietro di sé cadavere alcuno, in realtà non possono morire e bisogna cercare il segno distintivo della morte non già in quello che scompare ma in quello che resta della vita.

E’ evidente che questi elementi restanti della vita devono poi trasformarsi in materia inanimata. Qualsiasi organismo esteriore, dal semplice al più complesso, alla morte diventa inanimato. Soltanto quando si guarda in faccia alla morte in connessione con la vita si supera la nozione dell’inanimato e per arrivarvi bisogna penetrare sino alle cause, vale a dire ai principi della vita quando la vita è ancora là, quando ancora questa sussiste. Si è detto prima che è impossibile parlare del senso della morte di una pianta, di un animale e di un uomo. Si dimentica il fatto d’importanza primordiale che si riscontra in certi insetti, principalmente nelle effimere. La maggior parte delle piante e degli animali inferiori ha questa particolarità: al momento della fecondazione, l’essere che dispensa la vita nuova comincia a morire. Si può dire di molte piante che la causa del loro sparire è dovuto all’essere che nuovamente appare e questo non lascia alcuna vita al precedente. Ci si può convincere facilmente: ci sono piante che durano, fioriscono e danno frutti a più riprese e le nuove piante sembrano essere dei parassiti che continuamente si abbarbicano sullo stesso frutto.

Queste piante pagano però cara la possibilità di poter continuare a vivere e sono costrette a spingere nella morte parte vivente di sé medesime e devono contornarsi di una corteccia. Si può affermare che continua a vivere contornandosi di questo corpo inanimato che è la corteccia che è un’eccedenza di vita e che se la conserva per sé stessa e che non offre al nuovo nato quel che questi domanda. Si garantisce una sorta d’eccedenza di vita cacciando la morte al di fuori. Si può anche dire che qualsiasi essere vivente che conserva la possibilità di vivere, dopo che è procreato, è posto nella necessità di oltrepassare il punto nel quale la sua vita dovrebbe arrestarsi ed è ciò che questi fa nella misu- 3 ra con la quale s’incorpora la materia inanimata, inorganica. Lo stesso fatto si verifica sia per gli animali che per l’essere umano. Ecco come la vita entra in rapporto con la morte nell’essere medesimo; si tratta di uno scambio fra l’elemento vivente portato verso l’esistenza ed un elemento che tende verso la morte e costantemente interviene. Queste idee sono poco conosciute al nostro tempo e per l’umanità moderna sono nuove. Del resto ciò che oggi è banale verità fu ad esempio una novità due secoli or sono.

Oggi nessun erudito dubita della verità che tutto ciò che è vivente proviene dal vivente eppure il grande naturalista Francesco Redi nel secolo XVII fu giudicato eretico e pericoloso dal mondo scientifico ufficiale perché affermava che anche gli animali infimi sono prodotti da animali della stessa specie. A malapena sfuggì alla sorte di Giordano Bruno e di Galileo perché gli scienziati di quel tempo sostenevano che i vermi, gli insetti e persino i pesci possono avere origine dalla melma inanimata. Il Redi non ha affermato nulla di più di quanto oggi è generalmente conosciuto e in altre parole che ogni essere vivente ha origine da un essere vivente. Ha avuto la colpa di conoscere una verità due secoli prima che la medesima trovasse le prove irrefutabili. Da quando Pasteur ha istituito le sue ricerche non può esservi alcun dubbio che ad una mera illusione fossero dovuti quei catini nei quali si era creduto potessero nascere esseri viventi da sostanze inanimate per generazione spontanea. I germi vitali che penetrarono in queste sostanze inanimate sfuggivano all’osservazione. Non si vedeva che ciò che si aveva immediatamente davanti agli occhi non si cercava di penetrarlo al fondo delle cose e non ci si rendeva conto che qualsiasi essere vivente racchiudesse un germe depositario da un altro essere vivente e che nessuna vita potesse prodursi al di fuori di questa trasmissione.

Questa era la via seguita e i pericoli sino a Francesco Redi. Quando si volge lo sguardo al fatto che i tempi cambiano, si sente meno ansietà per l’avvenire per verità che si professano, e benché sia anche vero che non ci sono più le fiamme del rogo, esistono altri mezzi di persecuzione. Possiamo per esempio leggere in opere del secolo XII e XIII che allora erano voci di autorità indiscusse, che il calabrone era prodotto dal cadavere bovino e che la vespa era invece prodotta dal cadavere d’asino. Cosi, come gli errori in cui si incombeva in quei tempi, si commettono ancora oggi tanti errori non più riguardo al fisico ma alle parti spirituali dell’uomo, infatti si studia lo sviluppo dell’uomo a partire dalla sua nascita e si guarda alla sua forma, alle differenti attitudini e disposizioni.

Quando però si passa alle cause di queste conformazioni si comincia ad interrogarsi 4 sulle condizioni ereditarie, le caratteristiche ambientali, e questo metodo è analogo a quello dell’osservazione della melma nella quale si trova il verme invece di studiare il suo uovo. Certo che vi è un apporto trasfuso dai parenti e da altre circostanze, ma vi è anche un certo nocciolo essenziale che un accorto osservatore deve saper distinguere. Mai potrà questi ricondurre, riconnettere questo nocciolo fondamentale a condizioni ereditarie e mai potrà omettere di rilevare gli aspetti spirituali ed intellettuali. E’ certo che in noi vivono degli elementi che traggono la loro origine dall’ambiente, ma ne vivono ben altri che con questo hanno nulla a che fare. Nel regno vegetale ed animale si può sempre ricollegare l’essere nuovo alla specie del suo progenitore, ma non oltre. Quante persone affermano che un cavallo, un cane ed un gatto hanno una individualità! Presumono di poter descrivere questa individualità come una biografia umana. Liberi di farlo, ma queste immagini hanno solo un valore simbolico come quando i miei compagni ed io dovevamo scrivere a scuola la biografia del nostro portapenne.

Ma quando si tratta di esseri reali non possiamo accontentarci di analogie o di simboli ed è l’essenza stessa che va raggiunta. L’essenza dell’uomo è la sua individualità, non la specie ma la sua individualità singola, precisa, ciò che di lui fa quel determinato uomo. Ogni uomo ha per scopo la formazione della sua individualità cosi come la pianta ha per scopo il prolungamento della sua specie. Lo sviluppo dell’uomo consiste nel fatto che la sua evoluzione presenta un’eccedenza di vita individuale rispetto a quella della specie.

Ogni progresso, ogni educazione, ogni sviluppo storico è basato su questo fatto. Se nell’uomo non esistesse questo nòcciolo del suo spirito e della sua anima, diciamo questo germe individuale, l’umanità non avrebbe storia. Si potrebbe parlare della sua specie, del suo sviluppo, ma mai della storia o della civiltà. Infatti la scienza naturale può parlare dello sviluppo della specie cavallo, ma mai della sua storia e della sua civiltà. Nella evoluzione di ogni singolo uomo noi troviamo un germe spirituale che ha esattamente la medesima importanza del fattore specie nell’animale. Ma mentre l’animale che realizza la specie non fa che ripetere il progenitore e non può nascere che da un germe fisico trasmesso dai progenitori stessi, l’essere individuale dell’uomo non può essere prodotto da ciò che esiste nel mondo fisico, ma soltanto ed esclusivamente da qualche cosa di spirituale. Una essenza spirituale che si manifesta attraverso la nascita di un uomo non si ricollega unicamente a una specie uomo, attraverso i genitori o i nonni, ma a un precedente essere spirituale che non appartiene, in quanto ad individualità, alla specie umana, anzi che non appartiene a specie alcuna, ma alla natura di questa stessa individualità umana.

Quando l’uomo nasce è un germe individuale 5 che nasce e non ha il suo fondamento che da lui stesso. Nel medesimo modo in cui l’animale cerca di realizzare la sua specie, così l’uomo cerca di realizzare la sua umana individualità. Questo essere individuale umano esiste prima della nascita come il germe della specie animale ha preceduto un singolo animale. E’ nelle vite anteriori che noi dobbiamo cercare un elemento, il germe spirituale e non fisico della singola individualità che va a svilupparsi. Ogni vita umana porta in sé stessa la prova che essa ha già avuto un’altra esistenza, ogni vita umana implica una passata esistenza. Si potrà dire che queste sono affermazioni gratuite e che non sono nel dominio della conoscenza.

Questa verità delle vite successive è ancora poco accettata. Possiamo però continuare con tranquillità nel nostro lavoro ulteriore perché è certo che solo lo spirituale può produrre spiritualità e finirà per stabilirsi ed essere compreso nel suo significato dalla mente umana. Verrà un tempo in cui parrà molto strano che si sia potuto credere diversamente, cosi come oggi ci sembra paradossale che nei secoli passati si sia potuto credere che il pesce ed il verme sorgessero dal fango. Questa entità individuale dell’uomo che fa la sua apparizione terrestre alla nostra nascita, si manifesta principalmente nell’età giovanile. E determina lo sviluppo dell’intero uomo. Chi sa giudicare l’anima del fanciullo e chi ha memoria della propria infanzia sa che il vero fondo della sua anima non è apparso all’improvviso ma ha sempre riposato in lui. E’ questo nocciolo che ha sempre determinato tutto il corso del suo sentimento e del suo destino. L’azione che emana da questo centro essenziale è visibile in ogni movimento, in ogni minima azione della nostra vita. Quando diventiamo adulti è lui che ci aiuta ad adattarci alle cose esteriori, ad osservarle, e perciò ad arricchire il nostro Io.

Quando noi osserviamo gli scambi che si stabilizzano fra questo germe spirituale dell’individuo e ciò che la vita apporta, soprattutto quando si tratta della nostra felicità o della nostra sofferenza, noi vi scorgiamo l’immagine dell’azione reciproca che si stabilisce tra la vecchia pianta e la nuova. La nuova cresce e si sviluppa a spese della vecchia, sottraendole una parte della sua vita. Si può dunque dire dell’albero che la vita gli è incessantemente rapita, in quanto lignifica, indurisce; intere parti divengono sostanze morte, senza vita ed una corteccia avvolge il suo tronco. Ora se noi consideriamo attentamente l’essenza della vita umana, vediamo non solo un fenomeno puro e semplice di evoluzione in ascesa, ma un’evoluzione che vivifica, fortifica l’essere spirituale umano e lo adatta all’ambiente esteriore. Più egli cresce, tanto maggiormente egli entra in conflitto con le sue disposizioni innate, ossia con sé stesso. Nella prima gioventù gli organi si formano e si coordinano secondo un piano naturale; più tardi invece questo processo cessa e la vita si anchilosa. Ne consegue ne- 6 cessariamente che, più noi ci sviluppiamo, rinnovando e arricchendo il centro della nostra individualità, più entriamo in contrasto, in conflitto con questo centro fortificato ed arricchito. Finché ci sviluppiamo e per quel tanto che ci sviluppiamo, non vi è posto nel nostro spirito per alcun fenomeno di morte, per alcun arresto.

Ciò non avviene se non quando elementi estranei cominciano a penetrare in noi, allora il germe della morte appare. In fondo in questo consiste tutta la vita umana, solo nell’infanzia non è rilevante se non più tardi. Possiamo dunque dire che in seno all’essenza umana più intima, avviene per l’anima e lo spirito un fenomeno di crescita e di deperimento. Non riusciremo a comprenderlo giustamente quando lo osserviamo in una delle sue manifestazioni delle sue forme inferiori, e quindi, secondo i fatti della vita ordinaria, ci facciamo una idea delle forme più alte della vita. Prendiamo per esempio la fatica. Consideriamo il suo aspetto nell’insieme dei fenomeni vitali. Si può dire che l’uomo si affatica perché fa uso dei muscoli e che questi esigono un rinnovarsi di forze. Si potrebbe concludere che l’uomo si affatica quando il lavoro logora i muscoli. Questo pensiero parrebbe a prima vista plausibile. Ma non è vero. Attualmente noi sappiamo dalle nozioni che solo sfiorano la superficie delle cose senza penetrarvi. Riflettiamo: se i muscoli potessero veramente stancarsi, che avverrebbe del cuore, del muscolo cardiaco? Questo non è mai stanco e lavora senza posa e cosi è per tutti i muscoli dell’uomo come dell’animale. Non è dunque nel rapporto del lavoro col muscolo che si deve cercare la spiegazione della fatica. Quando allora la fatica si manifesta? Quando il lavoro è provocato non dall’organismo né da una funzione vitale, ma da circostanze esteriori. Quando un essere vivente partecipa ad un lavoro cosciente a mezzo di uno dei suoi organi, questo organo si stanca. Nel processo vitale puro e semplice, non vi è nulla che possa causare la fatica. Occorre che le funzioni vitali degli organi siano mescolate con qualche cosa di esterno alla loro natura perché ci si possa affaticare. Ovunque appare la fatica, questa è dovuta ad un fenomeno di coscienza. Così ridicolo sarebbe parlare della fatica delle piante. Ma se l’organismo vivente si stanca, ciò è dovuto al fatto che si trova di fronte ad un elemento ad esso estraneo che si contrappone alla sua stessa natura.

Si può dunque dire che le alterazioni, i disturbi che avvengono nelle funzioni vitali e che si manifestano nella stanchezza, sono sufficienti a dimostrarci che la nostra vita affettiva ed intellettuale non trae le sue origini dalla vita fisica, ma che essa si trova in piena contraddizione con le leggi di quest’ultima. La fatica si spiega nell’opposizione che esiste fra le leggi della nostra coscienza e le leggi dell’organismo puro e semplice. Tutto ciò che è estraneo a quest’ultimo, tutto ciò che lo disturba, genera la fatica. Il sonno ed il riposo possono ripa- 7 rare l’usura provocata dalla fatica. Ma questa usura è sempre ricondotta da un elemento nuovo che si insinua nella vita organica. L’usura proviene sempre dal fatto che l’uomo è in contatto col mondo esteriore. Le predisposizioni precedenti, gli elementi vecchi entrano in attività con gli elementi nuovi. Succede che come il germe vitale si trasforma nel corso della nostra vita individuale si elabora in noi un indurimento progressivo a partire dalla nostra nascita.

Nel dominio spirituale la causa della morte è legata a questo impulso, a questa tendenza verso una nuova vita, proprio come nell’organismo animale la fatica ha per causa il fatto che l’organismo entra in contatto con gli elementi nuovi che gli sono estranei. Il fenomeno della fatica ci aiuta a comprendere il fenomeno della morte e del deperimento, se ci si rende conto che nella stanchezza si esprime il contrasto fra l’elemento spirituale e l’elemento organico. In realtà il nostro essere spirituale interiore contiene durante tutta la nostra vita un germe di morte. Ma noi saremmo incapaci di sviluppo e di elevazione se non si unisse questo germe di morte alla vita del nostro essere interiore. Così come non vi è nessun lavoro esteriore senza fatica, ugualmente non ci sarà arricchimento ed elevazione spirituale senza questo germe di morte. Bisogna respingere, buttar fuori l’involucro esteriore. Questo rapporto spirituale, questa azione della vita e della morte è un vero beneficio. Buttiamo fuori da noi tutto quello che siamo stati nel passato. Se non ributtassimo questi stati antichi non sarebbe possibile sviluppo alcuno e incorporando forze nuove ci rincorporiamo e questo vuol dire che raggiungiamo la morte e la sorpassiamo.

Queste forze nuove sono i frutti della vita passata. Possiamo imparare molto approfittando delle nostre esperienze, possiamo realizzare molte cose, ma in verità non possiamo trasmettere queste esperienze al nostro involucro esteriore. Perché questo involucro non è conseguenza di ciò che noi apprendiamo in una vita soltanto, ma di ciò che siamo stati in una esistenza precedente. Non possiamo dunque edificare la nostra vita attuale se non su quanto abbiamo acquistato nella nostra vita precedente, né possiamo continuare l’evoluzione se non rigettando gli elementi del passato, come l’albero butta fuori la scorza, se non marciando ed avanzando verso la morte. Con ciò che portiamo con noi oltre la morte siamo nella stessa misura in condizione di edificare la nostra vita futura e questa conterrà le medesime forze che hanno assicurato il volo del nostro spirito e della nostra anima al tempo della giovinezza. Quanto fiorirà anche fisicamente in questo lontano avvenire, avrà l’impronta, il segno, le caratteristiche e la qualità e difetti di quanto noi avremo acquistato interiormente in una vita precedente. Di fronte a queste affermazioni si pone sempre la stessa domanda: a cosa servono queste ripetizioni di esistenza dal momento che 8 non ne conserviamo un ricordo? E’ specifico della nostra civiltà intellettuale moderna di farci comprendere le cose della natura ma di lasciarci nell’oscurità per quanto si riferisce al problema spirituale della vita. Riusciremo però a convincerci che è perfettamente possibile farci delle giuste idee su questi quesiti.

Ci avviciniamo meglio alla giusta idea se invece ci domandiamo: cos’è la memoria? Qual è la sua natura? Vediamo di rispondere a queste domande. Tutti sappiamo che c’è un’epoca della nostra vita nella quale cessa ogni ricordo. E’ l’età della prima infanzia. Il ricordo risale fino ad un certo punto prima del quale non si sa più nulla. Ci si ricorda di aver vissuto questo punto ma non se ne sa nulla. Sappiamo che è l’Io spirituale che portiamo in noi che ha edificato la vita, ma non è possibile risalire sino a lui con la memoria. Quando si osserva la vita dei fanciulli possiamo constatare che il ricordo arriva sino al tempo nel quale la nozione di individuo, il concetto di essere un Io si presenta nell’anima. Questo è un fatto di straordinaria importanza. Il momento in cui il fanciullo dice di sé stesso non “Carlo vuole questo” ma “Io voglio questo” appare la manifestazione cosciente dell’Io che ha facoltà di ricordarsi. Questo avvenimento cosi importante è dovuto al fatto che il ricordo ha bisogno per vivere di appoggiarsi su ben altra cosa che non i semplici fatti esteriori. Il solo avvenimento esteriore non genera in lui la memoria. Affinché vi possa essere il ricordo, occorre che avvenga qualche cosa nell’anima e nell’organismo interiore. E’ necessario distinguere la percezione di un oggetto o di un fatto e la rappresentazione che noi ci facciamo di questo oggetto. Il processo della percezione è ogni volta sempre identico a sé stesso, basta il ritrovarsi di fronte allo stesso oggetto, ma è tutt’altra cosa la rappresentazione, ossia l’esperienza che si fa di una impressione visiva od auditiva.

E’ come se si avesse ricevuto un’impronta interiore, come se un sigillo si fosse impresso in noi. La rappresentazione, l’immagine conserva questa impronta ed essa si incorpora del ricordo, ma questo deve necessariamente essere prodotto. Molti discepoli di Schopenhauer non sono di questo avviso, ed affermano che la nostra percezione del mondo non è altro che la nostra rappresentazione. Ma confondono percezione con rappresentazione. La rappresentazione è sempre una riproduzione. La percezione esteriore può aver luogo indefinitamente, ma senza l’impronta interiore fissata nell’immagine, mai si incorporerebbe la memoria. Chi assicura che la rappresentazione non è altro che la percezione, farebbe bene a riflettere che la rappresentazione di un ferro infuocato non scotterà mai alcuno, mentre la sensazione fisica di questo ferro è dolorosa. La differenza tra immagine e percezione dei sensi è evidente. L’immagine o rappresentazione è una percezione dei sensi diretta 9 dall’esterno verso il nostro interno. Allora si produce un urto fra l’oggetto esteriore e noi, uno scambio che provoca la necessaria impronta. Tutto ciò che noi riceviamo o raccogliamo del mondo esteriore deve essere incorporato nel nostro Io. Una percezione dei sensi può avvenire e restare fuori dall’Io. Ma affinché una immagine del mondo esteriore possa essere conservata nella memoria, deve penetrare in noi fin dentro il nostro Io.

E’ impossibile separare un’immagine esteriore dall’Io. So di parlare in simboli ma questi simboli sono realtà, sono dei fatti. Rappresentiamoci, raffiguriamoci che l’esperienza intima dell’Io sia analoga alla superficie interna di una sfera. Le esperienze dei sensi vengono a riflettersi e la loro riflessione all’interno produce la rappresentazione cioè l’immagine. Ma l’Io deve necessariamente essere presente in ogni percezione sensibile affinché si possa avere l’immagine. Cosi l’azione dell’Io è mescolata con tutto ciò che va ad incorporarsi od unirsi col nostro ricordo: esso è lo specchio che riflette verso l’interno e che lo colpisce. Con questo si spiega il seguente fatto: finché il fanciullo non percepisce le sue idee in modo che queste si trasformino in rappresentazioni nella sua anima, finché non ha le percezioni sensibili sperimentate, provate, per cosi dire fra l’Io ed il mondo esteriore, lo specchio del suo Io non si frappone fra le cose e lui per proiettare le cose stesse verso l’interno, verso il dentro.

Fino allora si noterà che il fanciullo percepisce per immagini molti fatti che avvengono attorno a lui e che gli adulti non rilevano affatto. Dove la percezione è apparsa, l’Io serve da specchio ed è per questo che nulla può essere richiamato alla memoria di ciò che precede questo momento. E’ dunque evidente che la memoria non può oltrepassare il mondo dei sensi e che è legata all’Io attuale dell’uomo, al grado di sviluppo e di maturità raggiunto attraverso la serie delle sue apparizioni, delle sue vite terrestri successive. Ma l’esperienza non potrebbe forse provare che il contrario è ugualmente possibile? Si può parlare di un allargamento della memoria che giunga alle vite precedenti? Per semplice definizione è chiaro che la cosa sarebbe possibile se si potesse raggiungere ciò che si trova dall’altro lato di questo punto ove l’Io appare, da questo limite, che per cosi dire, si pone a sé stessi.

Vi è la possibilità di spingere lo sguardo dietro questo Io? Si, senza dubbio. Se veramente si vuole sviluppare, elevare la propria anima, disciplinarla con metodo, in modo che le forze che in essa dormono comincino a germinare e ad innalzare l’anima al di sopra di sé stessa, occorre seguire una via nuova di rinuncia interiore ed appropriarsi delle immagini che non si trovano nel campo ordinario del suo Io attuale. Questo richiede l’impiego di esercizi spirituali determinati. Il contenuto che l’uomo si appropria diventa la cosa importante della sua meditazione e questo 10 contenuto deve corrispondere all’essenza della sua anima e non deve riferirsi soltanto al mondo esteriore. La riflessione è comunemente diretta verso le cose esteriori ma questo genere di riflessione non ha alcun valore per colui che vuole elevarsi verso le sfere superiori. Egli deve dunque sviluppare in sé stesso una vita meditativa, che a mezzo di immagini e simboli sviluppi una attività spirituale che l’io ordinario, volto all’esteriore, non conosce affatto. L’analisi dello stato di sonno chiarirà quanto vogliamo dire. Nel sonno tutto quello che abbiamo provato nella veglia, immagini, pene e sofferenze, sprofonda nelle tenebre.

La vita cosciente si oscura e risvegliandosi la coscienza riprende il contenuto della veglia. Paragoniamo la vita cosciente quando ci addormentiamo e quando ci svegliamo. Finché l’uomo non riceve dai suoi sensi impressioni della coscienza ordinaria egli non riporta al suo risveglio la mattina che quello che nella sua coscienza viveva la sera. Egli si desta con le stesse idee, con gli stessi ricordi che aveva prima di addormentarsi. Ma ben diversamente succede per l’uomo che ha intrapreso il suo sviluppo interiore, oltre i limiti abituali del suo Io. Allora risvegliandosi, si sente come arricchito, e giustamente grazie al sonno, il contenuto delle esperienze di veglia ritorna a lui vivificato. Egli si rende conto che questo contenuto non è stato attinto dal di fuori, ma è stato acquisito ed estratto dalla sfera spirituale.

Questi sono i primi progressi di colui che si desta alla vita dello spirito. Ma è ancora possibile appropriarsi di un contenuto spirituale anche in piena veglia nella vita quotidiana. L’Io deve accettare questo contenuto allo stesso modo con cui accetta quello che gli recano i sensi. Ma sino a queste regioni profonde interiori, può penetrare solo colui la cui meditazione oltrepassa i limiti dell’Io ordinario. I sentimenti che allora si elaborano rivestono caratteri di questa disciplina spirituale. Bisogna sforzarsi nel cercare di liberarsi da ogni desiderio di fronte all’avvenire e di affrancarsi dal timore a dall’angoscia dovuti all’ignoto. Impassibilmente bisogna dire a sé stesso che avvenga ciò che avvenga e dirselo con la più profonda convinzione dell’anima. Questo non è fatalismo ché il fatalista vuole che tutto si formi da sé; si tratta invece di intervenire nella vita e di dominarla, e questo equilibrio assoluto tra il pensiero ed il sentimento che inizia a regnare in noi offre una forza che protegge l’Io dalle percezioni invadenti. Lo si protegge questo Io e lo si colma di tutto un mondo di nuove esperienze spirituali. Queste solamente ci danno la possibilità di riconoscere il vero carattere di questo nocciolo interiore spirituale prodotto da una vita precedente, che si sviluppa senza posa dalla nascita ma che non può essere immediatamente riconosciuto per quello che è. Bisogna dapprima sapere osservare come questo centro interiore nel quale tutto confluisce vive in ogni istante. 11 Come si potrebbe richiamarsi una cosa alla quale mai si è rivolto il proprio sguardo? Cosi come il fanciullo non ha in sé la coscienza di tutto quanto avviene prima che riceva il suo Io, nello stesso modo l’uomo non può raccogliere nella sua memoria gli avvenimenti delle esistenze precedenti perché queste non scorrono dalla conoscenza abituale del suo sé.

Colui che vive tutto questo e che impara a considerare con impassibilità l’avvenire ed acquistando cosi la facoltà della visione delle vite anteriori, vedrà che queste non sono solamente una supposizione logica ma una realtà. La possibilità di volgere il proprio sguardo verso il passato si acquista con la calma e con l’assenza di desiderio di fronte all’avvenire2. Ritrovare il nostro passato è possibile nella misura in cui possiamo nei sentimenti e nei pensieri separare il nostro Io dal nostro senso dell’avvenire. Più svilupperà questa calma, maggiormente si avvicinerà al momento nel quale le esistenze anteriori gli divengono una realtà. Qui risiede la ragione per la quale si dice che il ricordo non abbraccia tutta la vita umana. E’ esattamente la stessa cosa come se qualcuno dicesse che un fanciullo di quattro anni non sa contare e poi concludesse che l’uomo non sa contare. Il ricordo delle vite anteriori dipende in assoluto da un allenamento della vita dell’anima.

Questo è il motivo per il quale è necessario riflettere su ciò che è il contenuto di pensiero cui abbiamo accennato all’inizio di questa conferenza. Si converrà allora sull’esistenza di un nocciolo spirituale che portiamo con noi oltre la soglia della morte verso una nuova esistenza, come l’abbiamo portato in questa vita con la nascita. Cosi la Scienza Spirituale ci fa capire che nell’uomo c’è qualcosa di eterno sia di fronte alla vita, sia di fronte alla morte. Possiamo concludere che le considerazioni logiche sulla vita e sulla morte ci mostrano che in ogni individualità umana giace la possibilità di ricordarsi delle vite anteriori. Allora non si dirà più che, poiché non ci ricordiamo, esse sono inutili. L’età che resta fuori dalla memoria del bimbo non è forse per lui della massima importanza? Delle passate esistenze portiamo in noi i frutti che incessantemente sviluppiamo nella vita attuale; dal momento in cui possiamo rivedere queste vite passate, ne sorge il ricordo. E’ allora che noi possiamo constatare che è stato bene non averlo avuto prima, perché il ricordo di queste vite anteriori non si acquista soltanto per le qualità sopra accennate, ma per il fatto che noi non possiamo sopportarlo che in questo stato di anima disciplinata. Se questa memoria ci venisse in una maniera artificiosa mentre il nostro Io è ancora colmo di desiderio, la vita animica e spirituale non avrebbe più equilibrio.

Ci sono cose che vanno insieme 2 E’ possibile integrare il passo in questione con un passo della F600 L’anima umana e l’anima animale – Kassel, 3 Dicembre 1910. 12 ed altre che sono incompatibili. Abbiamo cosi seguito nell’uomo questo elemento eterno che porta nella vita attraverso la nascita e che ritorna nei mondi spirituali con la morte per riapparire poi nuovamente in una futura esistenza. Ne dipende infatti la possibilità di svilupparsi in un avvenire lontano. Abbiamo potuto vedere i rapporti tra questo centro dell’essere e questi due concetti, ora non resta che rispondere al quesito: che cos’è la morte? Si riconosce che cosa essa sia contemplando il cadavere. Abbiamo cercato nel più intimo della natura umana ciò che deve generare a nuovo la vita.

Affinché questa novella vita possa sorgere è necessario che gli elementi passati periscano e scompaiano come la vecchia pianta cede il posto alla nuova. Colui che considera la morte in questo modo non si attarderà nella osservazione del cadavere, che resta alla morte, ma sorgerà in ogni essere lo slancio che caratterizza la vita, e nuova vita riporta. Non accetterà le parole che Shakespeare mette in bocca al triste principe danese ed alzerà i suoi sguardi verso questo germe spirituale che attraversa nascita e morte, per rinnovare la vita sempre.

La fiducia nasce in noi quando non seguiamo il fenomeno materiale che si impone all’ossigeno all’idrogeno ed al carbonio, ma quando cerchiamo di seguire le vie della vita e quando di fronte alle parole di Shakespeare noi evochiamo altre parole che si possano cosi enunciare: l’essere essenziale dell’uomo è figlio dell’Eterno e vince la morte attraverso la vita che senza pausa rinnova3.

3 Lo Spruch finale è contenuto in oo 40 Aforismi e Dediche – p.13:
“All’ultimo degli uomini, un figlio dell’eterno sempre accadrà in futuro di rifiorire come testimone del passato.”

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